martedì 24 febbraio 2009

esercizio di grammatica per la fantasia

L' aria era calda e ferma, erano giorni d'inferno. I marciapiedi vuoti vegliavano sui muri sporchi e logori. Silenzio, finestre chiuse e ancora silenzio. Ecco come si stava. Non erano tempi quelli di affollare le strade. No, non era per niente una buona idea farsi vedere in giro e comunque non è che si potesse andare chissà dove. Eravamo troppo, veramente troppo lontani dal centro. Dimenticati e dimentichi, oserei dire, di certe basilari umane necessità. Non ho mai avuto le palle di rivendicare un agorà tutta nostra, del quartiere intendo. Tanto meno mi è mai passato per la testa di crearne una. Chi aveva voglia di farsi dei nemici? E all'epoca era eccessivamente facile averne. Mi rendo conto, parlo confuso, ma sono molti gli anni passati dai fatti e per poter arrivare qui a raccontarvi qualcosa ho dovuto dimenticarne molto. Tutto cominciò con l'insediamento del nuovo presidente. L'atmosfera era vibrante giù in città, io ci andavo spesso, era ancora possibile, senza problemi. Ero del movimento, nel movimento. Ricordo ancora svettare i palazzi, le finestre che si perdevano su nel cielo tutte uguali. Luci e specchi ovunque. Le bandiere, quante bandiere, con simboli e slogan, gente da ogni parte. Non ci sono più tornato, non so neanche se esistono più quei posti e a dire il vero ormai non me ne importa poi molto. Camminai per giorni interi senza incontrare nessuno quando partimmo per combattere. Eravamo in un deserto e un giorno ci perdemmo. All'inizio pensavamo che il presidente non ci avrebbe abbandonato, tempo uno, massimo due giorni e sarebbero arrivati, ma niente. Morirono tutti, tranne me, che fra le allucinazioni della sete e del caldo decisi di andare verso est abbandonando i ranghi. Scoprii che per loro c'era solo il monotono proseguire delle sabbie per almeno duemila chilometri. Non mi presi neanche la briga di andarli a cercare. Il fatto era che ci avevano mentito, eravamo stati traditi, non c'era niente per noi, e quello era un modo molto efficace per farcelo capire, o meglio, subire definitivamente. Quando tornai l'aria si era fatta diversa, i contatti sfilacciati fra le persone, le cose ed i luoghi. Non era più così scontato poter arrivare da qualche parte e questo cambiamento lo assaporai prima di tutto in casa. La mia famiglia era scomparsa. Non una lettera, un messaggio, un indizio. Amici non ne avevo più. Chi abitava quelle case era un perfetto estraneo. Per strada c'era poca gente. Ricordo che, seduto al tavolo di un bar, mi guardavo intorno senza saper bene cosa fare. Pensavo al movimento giù in centro, alla mia famiglia ma più di tutto pensavo a come potermi vendicare. D'un tratto mi guardai intorno e realizzai che non c'erano ragazzini da nessuna parte. Non ne avevo più visto nemmeno uno. Prima era pieno. Dopo quattro, forse cinque pinte di birra, decisi di capire bene in che cazzo di posto ero tornato. Camminai per la via principale osservando senza pudore la gente. Ricordo bene la faccia del tizio che mi veniva incontro. Io lo guardavo e lui mi guardava. Sono certo che fu lui, appena ci incrociammo portò la mano all'orecchio dicendo qualcosa. Mi presero e mi sbatterono a terra in un vicolo, nessuno disse niente. Calci e pugni fino a quando non mi spensi per proteggere il sistema. La vita insomma s'era ridotta a questo, fu il primo pensiero che ebbi quando la sinergia dei miei sensi ricompose il mondo. Li contai, ricordo, e fui sorpreso che ci fossero ancora tutti. Rimasi rattrappito per terra a lungo senza muovermi. Qualcosa era rotto e capivo dal trattamento ricevuto che non era il caso di chiedere aiuto. Sorrisi però, perché almeno avevo capito dov'erano tutti i ragazzi. Strisciai con calma all'ospedale da solo. Per un po' andò bene così. Mi trovai un lavoretto e il tempo libero lo passavo in casa. Quello che so di quegli anni l'ho sentito alla televisione. Il giorno che diedero la notizia degli sbarramenti raggelai. Sbarramenti dei luoghi, delle cose e delle persone. La faccia dello sconosciuto sullo schermo mi informò che da quel momento era ufficiale, intimandomi di rigare dritto e vivere lo stretto necessario. La questione del divieto venne di lì a poco. Il presidente non si vedeva ma c' era, quindi decisero di riformare profondamente l'organizzazione che si era abituati ad avere. Mi riesce molto difficile spiegarlo a persone lontane come voi, e non so neanche se sono in grado di farlo. Mangiare diventò doloroso. Nell'estrema periferia dolevano i piedi. Poche persone a svolgere compiti basilari, e che fossero vendite o acquisti andavano fatte in fretta. Fu quando il divieto si estese oltre il limite inviolabile della pelle che cedetti. Non so come avrei potuto resistere oltre neanche oggi. Mi presero, e il buio in cui fui sprofondato non concede alla realtà una sola parola per essere espresso. La sistematicità del dolore inflitto e niente altro, avevo in testa solo ronzii confusi e fame. Mi spensi migliaia di volte e migliaia di volte tornai a vivere nella tagliente luce mai spenta del mio mondo grigio. Fuggii la notte che bombardarono. Io non lo sapevo di certo che c'era la guerra, chi attaccava e chi difendeva mi era ignoto. C'erano urla e confusione, riusci a divincolarmi e fuggii di luogo in luogo senza mai guardarmi indietro ne fermarmi. I rumori nella testa erano cacofonie metalliche e non riuscivo a distinguere le cose vere da quelle generate dal mio caos. Fu estenuante riprendere fiato, ancora di più riuscire a controllare i tremori e gli scatti del corpo. Nel buco dove mi ero rintanato ci restai a lungo e credo ci sarei rimasto per sempre se non fossero arrivati. Spensero dolcemente i miei patimenti con un ago nella carne per poi lasciarmi ricomporre molto lentamente in un letto d'ospedale. Tornare ad avere coscienza del tempo che scorre fu la cosa più bella che abbia mai vissuto. All'inizio fu inutile cercare di placare i rumori, le forme, i colori, e non fu bello per niente ricominciare a pensare, tornare a vivere. Venne il momento di pagare il conto. L'ordine aveva ancora bisogno di me. Vecchio, nuovo, cosa importava? Quella cosa che chiamo io non l'ho mai posseduta. Ho vissuto davvero soltanto nei ritorni dolorosi, mentre ricomponevo la mia forma sfigurata. Il processo alla storia mi voleva fra i giurati. Venivo chiamato insieme ad altri a giudicare fatti accaduti realmente. Cosa era accaduto? Quale era la storia? Una sera a casa lessi una frase su un opuscolo che recitava: raccontati o verrai raccontato. Ero confuso e decidere di smetterla fu la soluzione più razionale. Un racconto è scritto per essere raccontato.

1 commento:

Anonimo ha detto...

finalmente letto;)